Il 22 settembre, presso Palazzo della Rovere, si è tenuta una prima presentazione del libro “Cristo Speranza dell’Europa”, cui hanno partecipato diversi membri del Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, nonché alcuni membri della Curia. Il Cardinale Angelo Bagnasco, presidente del CCEE, ha pronunciato questo discorso di presentazione del libro in un collegamento telefonico, di cui forniamo la trascrizione integrale.

Sono molto contento di questo collegamento. Saluto il dottor Gagliarducci Andrea, autore di questo testo “Cristo Speranza dell’Europa”. e a tutti i partecipanti.

Sono lieto di questo lavoro di Andrea, che non è soltanto particolarmente qualificato ma va a coincidere con il cinquantesimo anniversario del Consiglio delle Conferenze Episcopali di Europa. Combinazione, (questo anniversario) coincide con la fine del mio mandato quinquennale come presidente. Confesso che questa piccola coincidenza non mi dispiace affatto, anzi mi onora.

A margine del vostro incontro, certamente bello, interessante e promettente (ne sono sicuro) vorrei aggiungere alcune brevi considerazioni.

Anzitutto, che da quello che mi sembra di avere percepito in questi anni, in questo tempo, prima come vicepresidente e poi come presidente insieme ai miei confratelli è che l’Europa deve rinnovare se stessa. Se stessa significa l’unità nella diversità rispettosa, in sostanza. Deve tornare a pensare in grande.

Se, come si tende a fare oggi, si guarda solo al problema particolare che di volta in volta si impone – questo nella vita di ciascuno, la vita dei popoli, delle nazioni, ma anche dei continenti – senza mantenere la visione di insieme, cioè un pensare in grande, si rischia di vedere l’albero, ma di non vedere la foresta. E questo è un grande male, come ben sappiamo. Si agisce come se il singolo problema fosse il continente intero. Questo errore di prospettiva non consente una visione ampia, ma soprattutto delle politiche, delle azioni, degli orientamenti operativi coerenti.

L’Europa mi sembra che creda di pensare in grande in questo momento, perché parla di globalizzazione, di ordine mondiale. Ma – mi chiedo – su quali basi culturali, ideali e in quale modo pensa di pensare in grande parlando di queste cose?

Io mi rispondo in questo duplice modo.

Innanzitutto mi sembra che la visione da cui essa parte è una visione che esclude la dimensione religiosa e tuttalpiù riconosce una visione generalmente spirituale e immanente. Il problema era ben presente ai padri dell’Europa, ai grandi padri dell’Europa, i quali conoscevano bene la storia, il grande intreccio di religione, di cristianesimo, il grande alveo di filosofia, di arte, di diritto romano, i movimenti migratori di quel tempo. Avevano chiaro il problema dentro questa ricchezza, questa varietà, questo amalgama che ha raggiunto una armonia interiore, avevano  ben chiaro il problema di fondo per camminare insieme come comunità di popoli e come civis europaeus.

Questa duplice forma di comunità di popoli e di coscienza, di civis europeaeus, convive in ogni soggetto, sia personale che collettivo, anche oggi, ed è forse un unicum nella storia umana. Quasi una duplice valenza, non certo una schizofrenia. I padri dell’Europa si ponevano il problema del fondamento di quali ideali, delle finalità ultime che, come scrive Platone, costituiscono la cura dell’anima. Quando Platone nella Repubblica scrive della grande civiltà di Atene parla volentieri della prima fase di questa grandezza è la cura dell’anima, e per cura dell’anima intendeva la ricerca, il godimento, la persecuzione o meglio il proseguimento delle verità che non mutano, le verità ultime. Quindi i padri sapevano bene, avevano ben presente che ci vuole un fondamento di ideali grandi, ultimativi, e ci vuole anche un fondamento di valori morali. Non solo dove andare, chi siamo e dove andare, e cosa vogliamo essere, ma anche come andarci… Ecco la questione dell’etica! E di un’etica non solo condivisa come oggi si sente, ma condivisa in forza non di maggioranze – democratiche, certamente – , ma in forza di un fondamento ultimo.

Per quanto riguarda il modo, come si sta muovendo mi sembra il nostro continente in questo progetto di globalizzazione e di ordine mondiale, mi pare che si tenda non ad argomentare, ma ad omologare. Omologare dall’alto il modo di pensare e quindi di vivere. Mi pare che non si usi il ragionamento, ma lo slogan. Non la forza del raziocinio, ma la ripetizione ossessiva e a volte intollerante. Infatti, chi canta fuori dal coro, lo vediamo, viene facilmente ostracizzato anziché ascoltato come la logica e l’intelligenza umana richiederebbero.

Per tali ragioni appena accennate, il titolo del libro del dottor Andrea Gagliarducci è particolarmente felice, e lo ringrazio anche per questo. Perché non è solo suggestivo, evocativo, ma è sostanziale: Cristo speranza dell’Europa. Apre subito un orizzonte, che sicuramente all’orecchio secolarizzato è problematico. Ma in questa problematicità c’è una opportunità di interesse, di curiosità, se c’è una onestà intellettuale.

Oltretutto, ricordo che, come penso sia stata ben annotato, il testo non racconta cinque anni del CCEE: racconta, in un modo giornalistico, ma puntuale, una storia di cinquanta anni. Dalla grande intuizione di Paolo VI dopo il Concilio, che vide quasi profeticamente un organismo più unitario – più sinodale oggi potremmo anche dire –  più rappresentativo e autorevole che prenda a cuore lo scambio delle esperienze, la conoscenza reciproca, le analisi, la raccolta delle sfide e l’orizzonte evangelizzatore.

Per annunciare Cristo – e arrivo qui al centro di tutto il libro, la tesi di fondo, che è anche il desiderio di tutti noi vescovi europei – per annunciare Cristo è chiaro che è necessaria la fede, la fede di noi cristiani e questo sembra scontato, quasi banale. Ma non è scontato, perché non basta credere in Dio. È necessario vivere di Dio. E la cosa non sempre coincide, purtroppo.

È necessaria la nostra testimonianza di vita, lo sappiamo. La nostra serietà professionale. È necessario il rigore morale nonostante le nostre insufficienze, i peccati, i limiti, le incoerenze. Nessuno certamente si considera superiore agli altri per il dono ricevuto, e nessuno vuole mettersi in cattedra sapendo di non aver bisogno lui per primo – che ha il dovere di annunciare il Signore – di essere evangelizzato. Sarebbe una posizione, oltre che poco onesta, anche intellettualmente sbagliata.

Ci vuole anche il recupero della ragione, come via e come strumento della verità. Sembra quasi paradossale che si parli noi oggi come cristiani, come persone che hanno ricevuto la grazia immeritatamente – che l’abbiamo ricevuta per noi e per tutti – (sembra paradossale appunto) che noi invochiamo e recuperiamo la ragione. In questa stagione, la ragione infatti è debole, come si dice, ma quindi anche la fede fatica. Perché quando la fede non ha la forza o meglio l’appoggio della ragione e viceversa, entrambe sono un po’ zoppicanti.

Se l’Occidente non crede alla forza della ragione, del pensiero, ma usa la ragione solo in modo strumentale e non anche riflessivo, valutativo, non resta nessun ponte per parlare e incontrare tutti, E questo è un dramma. Rimangono delle narrazioni, religiose, filosofiche, culturali, ambientali, tradizionali, in cui ognuno racconta la propria narrazione ma senza possibilità di dialogo, di incontro su una base, su una piattaforma strumentale comune che è appunto la ragione umana.

Il pensiero, come si sostiene già adesso, diventa allora solo consolatorio, non veritativo. Ci parliamo per consolarci a vicenda nelle nostre miserie e nelle nostre fatiche. Ma questo non è il compito della ragione che Dio ci ha dato, e la storia bene o male lo attesta.

Risultato di questa fatica, di questa debolezza della ragione è la solitudine dell’uomo con se stesso, perché se non c’è possibilità di incontro attraverso una base razionale, concettuale che arriva alla verità non solamente scientifica e tecnica, ma morale, ideale, spirituale e religiosa, l’uomo resta chiuso in se stesso, ed è proprio questo che il pensiero dominante oggi vuole. Dividere e dominare: l’antico motto.

Il dialogo tra fede e ragione è sempre stato un architrave del cattolicesimo, ed è da ritrovare con urgenza e con decisione, cari amici. Sono certo che voi potete far parte di questa rinascita, di questo ritrovamento, di questa responsabilità per il bene dell’umanità. Le persone, le istituzioni, gli strumenti, i luoghi vecchi e nuovi non mancano per questo incontro tra fede e ragione, per questa dimensione culturale che non esaurisce la fede, ma che è conseguenza della fede incarnata.

Ultimo, ma non ultimo: il popolo, la nostra gente. Quella che non appare, che sembra non abbia alcun potere, non abbia voce, che è umile, che dà la vita giorno per giorno con il suo patrimonio di innato buonsenso e di vera concretezza: questo popolo c’è, e attende una luce, un incoraggiamento, un segno. Sono certo che questo libro sarà un incoraggiamento e un segno importante, significativo, che tanti potranno raccogliere in casa e fuori casa.

Vi saluto, vi ringrazio a tutti quanti per la pazienza e vi saluto tutti quanti.

Grazie Andrea! Grazie Ancora!

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